Osamu Dazai: un essere umano
Osamu Dazai: un essere umano

Osamu Dazai: un essere umano

Il sorriso di quel bambino è, in realtà, qualcosa di molto più simile all’espressione di un bruco, tanto da far gettare via la foto, borbottando per il disagio subito alla vista di quell’orrore. “Che bambino orribile!”. E devo ammettere che più guardo il sorriso del bambino, più non posso fare a meno di sentire che c’è in lui qualcosa di sgradevole e inquietante. Non è esattamente un sorriso. Anzi, questo bambino non sorride affatto! La prova di ciò è che sta’ in piedi con entrambi i pugni serrati. E nessun essere umano può sorridere tenendo i pugni serrati. E’ una scimmia! E’ un sorriso da scimmia! Come una brutta ruga sulla sua faccia. Avrei voluto chiamarlo “ragazzino rugoso”, ma l’espressione sul suo viso era talmente strana da farmi addirittura sentire un pò in imbarazzo e infastidito. Non avevo mai visto in tutta la mia vita un bambino con un’espressione così strana



Ci sono scrittori che riescono a incarnare appieno il secolo in cui vivono, capaci di convogliare su di loro i dolori, le sofferenze, i sogni e le speranze che muovono o sopprimono milioni di altri individui; essi si identificano così tanto con tali dolori da riuscire infine a trascriverli su carta, previo un lento e inesorabile inaridimento psico-fisico, quasi a svuotarsi man mano che l’inchiostro si asciuga in parole. Molto spesso basta consultare questi lasciti per comprendere maggiormente epoche passate, senza perdersi dietro a chissà quali testimonianze stroiografiche, perché lo svolgersi di una vita comune – scevra da costruzioni artificiose – riesce meglio a incarnare i mali e i beni del tempo.

Nel Giappone rimasto dopo il cataclisma della Seconda guerra mondiale i mali parevano condensarsi in un generalizzato pessimismo nichilista: l’Imperatore fu’ tratto con forza tra gli uomini, costretto a negare qualsiasi origine divina e questo in un paese che si identificava con la stirpe Han figlia di Amaterasu – dea del sole nella tradizione shintoista e antenata diretta della famiglia Imperiale – voleva dire spezzare l’anima del suo popolo. Alla devastazione militare fu affiancata la distruzione spirituale che fece ben più danni attraverso una massiccia adozione culturale lontana dallo spirito Giapponese ormai consegnato anima e corpo all’Occidente liberal-borhese, tanto più che gli occupanti statunitensi arrivarono a confiscare le katana e a chiudere i dojo di arti marziali che, lungi da essere una rappresentazione hollywoodiana in cappa e spada, rappresentavano l’essenza del Giappone. Se l’apertura del porto alle navi nere di Perry diedero il via alla Restaurazione Meiji e all’apertura all’Occidente del Sol Levante, la sconfitta nella seconda guerra mondiale e le radiazioni di Hiroshima e Nagasaki ne stuprarono le già indebolite membra.

Il 19 Giugno del 1948 viene tratto dal bacino di Tamagawa, a Tokio, il cadavere smunto di un giovane ragazzo riconosciuto successivamente come il famoso Osamu Dazai, scrittore che quasi anticipò nei suoi scritti la prematura fine verso cui sarebbe incorso. Se volessi poetare sulla tragedia potrei affermare che quel cadavere rappresentava il Giappone più di quanto non lo incarnasse l’Imperatore stesso in quel momento, ma sarebbe decisamente troppo e mi sentirei di fare un torto alla memoria di colui non si definì mai un essere umano.

Shuji Tsushima apparteneva ad una benestante famiglia originaria di Kanagi, figlio della numerosa prole di un ricco proprietario terriero e impegnato uomo politico che spesso mancava da casa, cosa che costrinse alla paternità surrogata la servitù che risiedeva nelle tenute dell’uomo. Fin da piccolo Tsushima sviluppò un sincero amore per la letteratura, in particolar modo per gli autori Occidentali, che non si limitava a leggere ma che imitava attraverso la scrittura; accanto a questo amore germogliava in lui un sentimento di continua inadeguatezza.

Troppo sensibile alle altrui presenze cominciò a sviluppare una vera e propria paura del prossimo, non riuscendo a sentirsi parte dell’umanità in quanto non degno di farne parte. Questo malessere che si accentuava in presenza del padre divenne motivo di una forte depressione e di uno staccamento dalle emozioni più elementari che Tsushima si sforzava di simulare assumendo le caratteristiche del buffone.

L’aria di Tokyo diede il colpo definitivo alla sua fragile psiche, quando cominciò a frequentare la facoltà di letteratura francese all’università e quasi conobbe immediatamente la dissolutezza più sfrenata; smessa la maschera del buffone per compiacere gli altri, si incarnò nel dandy che scivolava in relazioni e sui colli di bottiglia, inebriandosi di sakè e piaceri mondani insensibile ai cambiamenti che la società dell’epoca si apprestava a vivere. Poco presente a scuola ma immancabile compagno di baldorie nei locali notturni più frequentati Tsushima – ormai noto con lo pseudonimo di Osamu Dazai – divenne sempre più insofferente nei confronti della società stessa, da lui vissuta come una massa di gente per bene troppo lontana dalla sua natura di squalificato, come si considerava, indegno di farne parte. L’adesione al Marxismo fù solo un espediente per sentirsi parte di un qualcosa che toccava gli animi delle persone e le sue partecipazioni alle riunioni del partito si limitarono alla constatazione di quanto fosse inutile e privo di valore così tanto accanimento.

L’unico sollievo parve trovarlo nell’amicizia con Masuji Ibuse suo eroe letterario, che in parte finì per avvicinarlo alla corrente letteraria della Burai-ha (scuola decadente) nota per la presenza tra i suoi esponenti di scrittori che esprimevano una totale mancanza di scopi e una profonda crisi di identità nel Giappone al termine della seconda guerra mondiale; attraverso la tecnica narrativa dello shinshosetsu, il romanzo dell’Io, questi ultimi confessavano gli avvenimenti occorsi nelle loro vite corrispondendole alle avventure narrate negli scritti. Se la vita di Dazai cominciò ad evolversi in tragedia, ormai dipendente dal alcool e sostenuto soltanto dai soldi provenienti dalla famiglia, la sua carriera letteraria lo spinse lontano dagli studi che abbandonò nel 1935. Scrisse una serie di 12 poesie raccolte ne “Gli anni del declino” e poi tentò il suicidio.

Dazai sopravvive soltanto per entrare nel suo ultimo decennio di vita, quasi come se fosse costretto a scrivere il suo malessere nel diario personale dei suoi libri e forse è proprio così, se nemmeno un secondo tentativo di suicidio dopo aver scoperto che la moglie lo tradiva con il suo miglior amico servì a dipartirlo da questo mondo. I rapporti con le altre persone ormai erano funzionali soltanto a reiterare ubriacature e a dargli una parvenza di vita normale, anche il secondo matrimonio e la paternità riconducono ad un tentativo di farsi accettare in società più che ad una prova di amore e bisogno sentimentale; Dazai si sentiva sempre inadeguato e straniero, incapace di comprendere la natura umana e impietosito dal costringere con la sua debolezza ad una triste vita coloro che più lo amavano.

Durante la guerra – mentre i suoi vicini riversavano sulla sua persona un accanita antipatia dovuta ad una dissolutezza ritenuta inadeguata per via del clima austero dovuto al conflitto – una malattia polmonare cronica lo esenterà dal servizio militare consentendogli la pubblicazione di “Chuuya ti devo confessare una cosa” e “Corri Melos” romanzi molto diversi rispetto ai successivi parti dell’autore. Al termine del conflitto il corpo e la mente di Dazai subiscono un inevitabile tracollo, frutto di una vita sregolata il gran lavoro letterario che lo aveva completamente assorbito – e salvato fino allora – tanto da provocargli un grave esaurimento ulteriormente esasperato dal ripresentarsi della tubercolosi e dalla dipendenza da morfina. Nonostante il disastroso stato di saluto in cui versava, nel giro di tre anni riuscì a pubblicare “La moglie di Villon” e soprattutto i due romanzi che lo consegneranno all’immortalità: “Il sole si spegne” e “Lo squalificato”.

Nel sole si spegne Dazai da sempre escluso dalla società e forse per questo così lucido dal rappresentarla, parla di una famiglia caduta in disgrazia proprio al termine della seconda guerra mondiale, costretta dagli avvenimenti ad abbandonare una vita agiata pur di sopravvivere. In questo romando Dazai descrive la società benestante Giapponese come “la gente del sole calante” – da cui il titolo – ovvero figli di un epoca giunta alla sua naturale conclusione. Kazuko, la protaonista, si definisce insieme all’amante “vittime di un periodo transitorio della moralità” capitati proprio alla fine di una civiltà, con tutte le sofferenze e l’incapacità di far fronte ad una società profondamente mutata ove la vecchia morale non trova più posto. In questo bellissimo romanzo che incarna appieno l’epoca in cui fu’ concepito Dazai sviluppa uno stile che si pone tra occidente ed oriente inserendo nella narrazione debitrice dello stile letterario occidentale tecniche tipiche della letteratura tradizionale nipponica, come l’abitudine di fornire la battuta finale di un dialogo, che spesso si rivela essere quella cruciale, per poi tornare indietro per raccontare la vicenda che conduce a quella battuta, in un efficacissimo uso della prolessi. L’aristocrazia nipponica non è che la somma di una società che subiva sconvolgimenti tali da livellare ogni individuo ad una vacua esistenza passiva, priva di valori, virtù, in balia di un egualitarismo nichilistico che Dazai seppe ben percepire da “imbucato” marxista quale fu’.

“Quando fingevo d’esser un ragazzo precoce, la voce si sparse che ero precoce. Quando mi comportavo da ozioso, la voce fu che ero un ozioso. Quando facevo finta di non saper scrivere un romanzo, la gente diceva che non sapevo scrivere. Quando mi comportavo da bugiardo, mi chiamavano bugiardo. Quando mi comportavo da ricco, sparsero la voce che ero ricco. Quando ostentai indifferenza, mi classificarono tra gli indifferenti. Ma quando io, senza volere, mi lamentai perché davvero soffrivo, sparsero la voce che fingevo la sofferenza. Il mondo è fuori sesto.”

Naoji alla sorella Kazuko

Torniamo al 1948 pochi mesi prima che il corpo di Dazai venga ripescato dal bacino di Tamagawa, quando “Lo squalificato” diviene l’ultimo diario di un essere umano inadeguato, narrato da un personaggio fittizio che fa’ da involucro ad un sensibile e delicato ragazzino di nome Yozo Oba, così spaventato dal raffrontarsi con la società.

“Tutto passa. Questa è la sola e unica cosa che a parer mio s’avvicini alla verità, nella società degli esseri umani, dove ho dimorato sin oggi come in un inferno rovente. Tutto passa.”

Yozo Oba

“Ci sono degli individui il cui terrore degli esseri umani è talmente morboso che arrivano addirittura ad anelare di vedere coi propri occhi dei mostri di forme sempre più orrende. E quanto più son nervosi -più svelti a prender paura- tanto più pregano che sia violenta la tempesta…Pittori che hanno avuto questa mentalità, dopo ripetute intimidazioni e ferite inferte dalle apparizioni chiamate esseri umani, finirono spesso per credere ai fantasmi: perché videro nitidamente mostri in pieno giorno, nel bel mezzo della natura.”

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