Il cattivo federale
Il cattivo federale

Il cattivo federale

L’ennesima occasione sprecata. Questo scritto potrebbe già concludersi con la considerazione iniziale ma sento il dovere di rigirare il coltello nella piaga. Non è un mistero di come il nostro paese si regga sulla pochezza di attributi, anzi, questa caratteristica pare essere necessaria per poter ambire a posizioni di rilievo: abbiamo una classe dirigente incapace di alcunché, un’apparato mediatico civettuolo, un’elite intellettuale densa di personaggi e povera di contenuti, una triade politico-sociale nefasta accomunata da un atavica mancanza di coraggio. Incapaci di assumere decisioni se non eterodiretti dal conformismo ideologico, vale a dire l’ideologizzazione del blocco intestinale, l’unica ideologia, l’unico mito che provoca gastroenterite, in luogo della politica e dell’arte. Siamo il paese dei senza palle, mancanza biologica più che metafora, oramai.



Questo è lo sfogo di un amante deluso, forse è vero, perché quando ho letto nelle locandine l’altisonante titolo “Il cattivo poeta” credevo di potermi imbattere finalmente in un film che trattasse un personaggio fondamentale della storia d’Italia, come mai si è voluto fare prima d’ora. Invece il film non scorre come la poesia in versi, non si abbevera di mito e scoppiettii artistici, non rappresenta l’orbo veggente, non parla di Gabriele D’Annunzio. La sinossi disvela la storia del federale Giovanni Comini, con il Vate interpretato da un ingessato Castellitto Sergio che s’aggira come un fantasma tra le pieghe del Vittoriale, libero di farsi da parte per consentire le luci della ribalta al federale e all’unico vero e riconosciuto mito d’Italia: l’anti-fascismo.

Gabriele D’Annunzio è stato una figura importantissima nella storia del nostro paese, in grado con i suoi versi, le opere, le gesta e l’azione di influenzare pesantemente la cultura Italiana di inizio secolo, plasmando modi di vivere, di esprimersi e di parlare oggigiorno talmente diffusi da sembrare patrimonio culturale retaggio dei secoli passati; ciononostante, seppure una figura del genere avrebbe potuto ispirare interi sceneggiati televisivi, film e una sequela imprecisata di omaggi artistici, il Vate ha assunto l’immagine del parente lontano, quello che ti ricordi quando c’è una qualche ricorrenza perché magari puoi attingere dal suo portafoglio o rimane l’unico parente ad aver fatto qualcosa di buono in famiglia. Non lo si è potuto chiaramente debellare dai libri di testo, dagli inutili nozionismi scolastici, perché gigante tra i bambini, ma lo si è sempre trattato digrignando i denti, quasi con moto di rigetto, giusto perché GIGANTE tra i bambini. E chissà se a obliarlo non ci riuscirà il morbo della cancel culture d’oltreoceano.

Siamo obiettivi: è un personaggio troppo scomodo da trattare, lui che ha sostenuto l’ingresso in guerra dell’Italia, che ha portato l’epica cavalleresca tra le macerie della techné, che ha poetato tra le nuvole del cielo, che ha conquistato una città con la forza di un nome. Una città strappata ai suoi abitanti, geneticamente modificata e regalata a genti che il disprezzo per il nostro paese mai ha cercato di negare, come invece fatto dalla nostra pletora di intellettuali engagé. Come si può trattare un personaggio simile in un paese rappresentato da simulacri umani che gettavano il latte destinato ai bambini, scacciati da quelle terre costate il sangue e il sacrificio di migliaia di connazionali? D’Annunzio non è forse il cattivo della storia?

E’ il ritratto pietoso riservatogli dal regista e sceneggiatore Gianluca Jodice, che cerca di “riabilitare” il Vate rappresentandolo alla fine dei suoi giorni, cocainomane, depresso, lucido tra i pazzi, svuotato di senso e privo di poesia. Per decenni D’Annunzio è stato combattuto perché “fascista” oppure sostenuto in quanto “anti-fascista”, la solita puerile retorica che manda avanti questa triste espressione geografica che è l’Italia; per decenni e tutt’oggi se non detieni la tessera giusta in questo paese non lavori, e questo vale maggiormente quando si trattano personaggi spinosi. Quando si cerca di “riabilitare” il Vate – non si comprende per quale motivo lo si debba riabilitare, edulcorandolo – i suoi sostenitori lo re-inventano quale anti-fascista militante, e questo è reso esemplificativo da colui che gestisce i Vittoriale, Bruno Guerri, che in ogni occasione non manca di inventarsi la storiella del partigiano Gabriele. E pazienza se si ricorre a questa narrazione onde evitare che il mito di d’Annunzio venga sradicato, in quanto il mito sopravvive perché tale.

D’Annunzio non fù fascista. D’Annunzio non fù anti-fascista. D’Annunzio fù sé stesso e tanto basta. Immagino quanto sarebbe contento a sapersi ricordato unicamente in funzione dei poli opposti cui viene strattonato, lui che voleva vivere una vita inimitabile e che si trova costretto ad un ricordo più che evitabile. “Il cattivo poeta” non è che un sordido tentativo di riabilitare la sua figura come quella di un fervente oppositore di Mussolini, che pure stimò ed appoggiò, ricambiato, perché certamente la sua icona divenne la base delle camicie nere e del lessico del regime, ma altrettanto sicuramente se ne distanziò poiché egolatrico ingelosito dal successo politico che arrise al Duce, contrario all’alleanza con quelli contro cui decenni prima scese in guerra. Tutti i grandi personaggi sono complessi da trattare, e per questo non vanno accettati, adattati, ma soltanto riconosciuti per quel che hanno fatto in vita. Che importanza potrebbe mai avere tutto ciò al fine di valutare un mito? Non è forse arrivato il momento di lasciare al poeta il sovrano distacco dalle umane sorti, non è forse giunta l’epoca di strappare l’arte dal giogo degli omuncoli politicanti che mettono all’indice l’inimitabile, non è tempo di omaggiare D’Annunzio come il Vate che il fato d’Italia ci ha donato, invece che di strattonare il povero vecchio che i sinistrorsi ci hanno designato?

Ma che cosa aspettarsi da una pellicola che reca “poesia” in titolo e che racconta l’impresa Fiumana -per bocca di Amélie – come un epopea irripetibile in quanto si poteva girare nudi, fare festa, pippare coca e far votare le donne; A che minuto esattamente serve fermarsi per capire che il titolo della pellicola fa’ riferimento al comprimario della storia e non al suo protagonista? Il resto pietoso della cellulosa scorre a ritmi sempre più farseschi fino alla recita finale, dove drammaturgia di serie z si fonde con sentimentalismo da soap opera, lasciando il ricordo di un d’annunzio ignorato da un infastidito Mussolini mentre si abbraccia sconsolato ad un soldato di piantone. Forse la pallida desolazione dell’arte rappresentata sullo schermo, l’unica chiave di lettura per un film che avrebbe potuto trattare con coraggio la storia del nostro paese, senza paraocchi, ma che invece per l’ennesima volta ricaccia questo sdrucito stivale nel pantano di merda da cui sembra impossibile liberarsi.

Dire la verità parrebbe un atto rivoluzionario, mi sembra la più semplice delle assertazioni invece, che assume contorni quasi mistici quando viene detta in Italia. Quante palle servono – figurative queste – per dire la verità o fare un semplice lavoro di ricerca per riscoprire Gabriele D’Annunzio: la mia domanda retorica trova risposta nel budget di un pessimo film che nonostante le sviolinate vetero-sistemiche è passato ugualmente sottotraccia, ma trova anche la sostanza portata da un giovane progetto editoriale quale God Save The Vintage che alla figura del Comandante ha dedicato due documentari, senza soldi, senza sostegno ma con la voglia di testimoniare l’omaggio più sentito contro questo decrepito paese retto da pavidi omuncoli:

Eja Eja Alalà Comandante!

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