Black Sails, l’epica piratesca e un pour parler
Black Sails, l’epica piratesca e un pour parler

Black Sails, l’epica piratesca e un pour parler

In un panorama zeppo di serie tv dove escono titoli a getto continuo da spartirsi tra le diverse piattaforme streaming, ormai sempre più spesso diventa faticoso trovare qualcosa di veramente interessante; non perché manchino finanziamenti oppure qualità recessarie alla messa in scena – d’altronde la tecnologia ha fatto passi da gigante e per gli standard seriali non sono richieste doti così ricercate-  ma perché mancano le fondamenta stesse che sono vitali per costruire una serie capace di incollarti allo schermo. L’intrattenimento ha lasciato spazio all’indottrinamento, e se un prodotto tv con contenuti di qualità e una sinossi impegnata è manna dal cielo, oggi come oggi si predilige un impostazione chiaramente ideologizzata per produrre qualcosa che attiri finanziamenti.



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Il pensiero critico dello spettatore è addomesticato dal quantitativo esorbitato di proposte in catalogo, e il seguire una certa serialità diventa un abitudine più che un atto formativo di tempo impiegato bene; questo sistema trae numerosi benefici perché assevera la volontà dei finanziatori e di certe logiche di marketing spacciate per tutela delle minoranze, generando altresì flussi di cassa ingenti specie se gli attori in gioco con cui spartire il bottino sono in pochi. Il mercato USA ha visto negli ultimi mesi un blocco totale da parte dei sindacati degli sceneggiatori stufi di dover affrontare turni di lavoro massacranti, diktat continui sui contenuti da proporre e stipendi da fame mentre le multinazionali dell’intrattenimento registrano milioni di streaming e miliardi di dollari.

Può un sistema monopolistico simile, che non rispetta coloro che scrivono la ricetta del successo che poi si limitano a finanziare, avere la volontà di produrre qualcosa di qualitativamente valido? Godono di un sistema di tassazione agevolato, hanno soppiantato i multisala e il cinema come mezzo di diffusione cinematografica, hanno persino cannibalizzato la tv, sono i detentori del nostro tempo libero che crediamo poter impiegare come preferiamo costringendoci a sottoscrivere abbonamenti di sorta. Non pensiamo più a quale film vedremo in sala, o su quale canale ci fermeremo facendo zapping, guardiamo il calendario per vedere se l’abbonamento è ancora attivo. E’ un bene o un male? La tv non aveva già regredito la settima arte a puro passatempo? Tutte domande legittime, questioni da sollevare prima o poi. Mi serviva giusto un preambolo per separare un prima dal dopo.

Prima, diciamo fino a cinque/sei anni fà si poteva ancora assistere a opere di intrattenimento disimpegnato, in alcuni casi talmente di qualità da diventare una forma d’arte, e lo si poteva fare senza doversi in qualche modo scusare per averlo fatto, perché non si voleva recepire a forza un messaggio, perché non ci si chiedeva che differenza poteva esserci se il protagonista fosse nero o bianco. Perché ci si sedeva e ci si lasciava intrattenere svuotando la mente. Nel 2014, con le nostre piattaforme streaming preferite ancora in fase adolescenziale, Jonathan Steinberg e Robert Levine creano una serie tv trasmessa poi su Starz, noto canale via cavo USA – pensate, niente etere – destinata a diventare un piccolo gioiello: Black Sails.

Gli ascolti sono tutto, ma a quei tempi si cerca ancora di fidelizzare il pubblico permettendo alla serie di evolvere e crescere senza calare subito la mannaia e con questo tipo di ritmo lavorativo ci si poteva organizzare per scrivere adeguatamente il materiale. Black Sails viene concepito per quattro stagioni, quindi l’arco narrativo si svolge naturalmente ed ogni pezzo del puzzle si collega donando alla serie una storia intrigante, avventurosa e soprattutto logica fino agli ultimi episodi, permettendo al pubblico di terminare adeguatamente la visione dopo essersi “impegnato” per così tante ore. Sembra strano se pensiamo a come funziona oggi giorno.

Ma di cosa parla esattamente Black Sails? Dunque la serie è un antefatto del celeberrimo romanzo “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson ma non è soltanto un opera di fantasia, in quanto gli autori portano sul piccolo schermo personaggi realmente esistiti che diedero lustro all’epica piratesca. A fianco del capitano Flint e di Long John Silver, tratti dal romanzo, troviamo il capitano Charles Vain, la piratessa Anne Bonnie, Hornigold e Barbanera e diversi altri galantuomini che assaltavano le navi nel mar dei Caraibi durante l’epoca d’oro della pirateria. Perché la storia parte proprio in quegli anni, nel 1715 per l’esattezza, quando la Walrus di Flint è alla ricerca del galeone Spagnolo Urca de Lima carico d’oro e parte della flotta delle Indie Occidentali.

A colpire fin da subito è la caretterizzazione dei personaggi dotati di spessore e di profondità, merito anche dell’interpretazione degli attori che paiono proprio fatti per recitare in quelle vesti e che riescono subito a trascinare lo spettatore in mezzo a loro. Il ritmo della storia segue vertiginosamente sali/scendi ora drammatici, ora avventurosi e misteriosi, ora orrorifici. Ogni stagione è contraddistinti da un tema centrale portante mentre i vari personaggi si alternano tra intrighi e allenza, evolvendo senza mai rimanere uguali a sé stessi ma con una cura a livello concettuale tale da rendere tutto questo legittimo, credibile.

E’ una serie capace di migliorare con l’avanzare del tempo, in grado di mantenere un crescendo costante fino alla fine, tanto che personalmente ritengo proprio l’ultima stagione la migliore. Avere la possibilità di dispiegare una storia simile con i dovuti tempi ormai è pura utopia, ma per Steinberg e Levine è stato il metodo di lavoro con il quale sono riusciti a creare un’epica della pirateria che unisce il racconto fantastico alla narrazione storica senza stancare, coniugandole al meglio, impedendo che una parte sovrastasse l’altra. Punto di merito aggiuntivo le scenografie e i dialoghi mai banali che rendono il respiro e l’ardore di quegli uomini che si battagliavano per l’oro e la gloria.

Vorrei prendermi del tempo per fare qualche considerazione aggiuntiva tuttavia avviso il lettore che quanto seguirà sarà uno spoiler della serie, quindi consiglio caldamente di evitare la lettura di quanto segue fino a visione ultimata.

Il più grande colpo di scena della serie riguarda certamente il capitano Flint, che da uomo spietato e pronto a tutto per realizzare il suo sogno diventa anche la rappresentazione di una vendetta iconoclasta quando apprendiamo il suo desiderio di rivalsa nei confronti della perfida Albione, rea di aver messo a morte il suo amante. L’omosessualità di Flint ci viene rivelata come un fulmine a ciel sereno e cambia decisamente le carte in tavola nonostante il suo orientamento non sia mai appesantito da una qualche sottile volontà di esaltazione dello stesso, vizio comunissimo in pressocché tutte le produzioni tv degli ultimi anni. Anzi, ci consegna l’immagine di un uomo virile nel suo stoicismo, nella sua ferrea volonta, levandoci di torno l’immagine del chliché omo che provoca prurito e irritazione e funziona proprio perché viene presentato come un accidente della storia, un qualcosa di secondario al sogno che Flint persegue, qualcosa che in sé non lo definisce come uomo. Una svolta intelligente e da apprezzare ma che, visto il clima da will and grace imperante, a qualcuno potrebbe far storcere il naso, ma sarebbe un errore dal momento che ciò cui assistiamo non è l’esaltazione di un orientamento sessuale ma quanto lo stesso non influisca sul valore dell’uomo, particolare reso ancora pù emblematico nel caso del capitano Flint, personaggio circondato più dalle tenebre che dalla luce.

Finalmente si assiste a qualcosa che non riguarda lo specchio della moralità; laddove chiunque rappresenti una minoranza di vario tipo viene esaltato come moralmente ed eticamente superiore, quasi evoluto, rispetto agli WASP che hanno fatto la fortuna del cinema e della tv americana, e non solo. Un colpo di scene ed un personaggio al servizio di una storia che diventa reale, un personaggio che assume spessore dilà dalle macchiette attoriali che impersonano degli stereotipi per disegnare un mondo presente nelle teste de-pensanti di certi intellettuali.

Quando si assiste a tale plot twist si rimane basiti ma anche soddisfatti perché pare che gli sceneggiatori abbiano centrato il punto, cioé che rappresentare la realtà che ci circonda – almeno in un opera ispirata ad essa – con molte sfaccettature non vuol dire essere inclusivi imponendo un ideologia alla società, vuol dire presentare una realtà dove esiste l’omosessualità senza renderlo tuttavia un messaggio promozionale dipingendolo come un punto di arrivo di una società evoluta, un evoluzione appunto, quando tale inclinazione è presente fin dall’antichità (seppure ci siano dei dinstinguo tra omosessualità e omoerotismo) e non può valere come un miglioramento dell’essere umano. E’ un plot twist sorprendente e intelligente. E’ intrattenimento.

Poi però ci si accorge che la serie è del 2014 e allo stato attuale rappresentazioni di questo tipo negano finanziamenti e spazi creativi agli sceneggiatori che, se vogliono lavorare, sanno bene che tipo di prodotto dovranno confezionare. Vorrei concludere con una valutazione di quanto il panorama dell’intrattenimento e non solo sia mutato, proprio poco dopo la fine di Black Sails per ironia della sorte.

Negli ultimi anni ogni pretesto possibile calza a sfavore del dominio dei famigerati WASP (bianchi anglosassoni protestanti), rei di rappresentare una maggioranza che ha goduto, e gode, di privilegi a dispetto non solo di altre etnie ma anche di persone che non condividono un orientamento sessuale che ci hanno concesso di sopravvivere fin’ora; WASP è razzista, omofobo e pure anti- femminista e una moltitudine di associazioni e di membri esponenti del partito democratico USA condividono quest’impostazione ideologica e con solerzia si dedicano a finanziare movimenti che traggono spunto dalle teorie filosofiche destrutturaliste e post-moderniste per cambiare la società, che loro ritengono ingiusta perché in disaccordo con quelle che sono semplici teorie, ammettiamolo, nella maggior parte dei casi campate per aria.

Se tali movimenti poco spontanei escono dalle accademie e raggiungono addirittura un esposizione tale da mutare la lingua – è il caso della definizione di donna aggiunta di recente a Cambridge – ciò non può che influenzare la società che ho subisce passivamente oppure appoggia per convinzione tale forma di violenza. Perché di questo si tratta quando si legittima l’odio nei confronti di un’intera comunità, quella WASP appunto, addirittura definita razzista per impostazione genetica. Chi non si adegua a queste teorie poco filosofiche e tanto demagogiche subisce la gogna mediatica, rischia il lavoro e anche la propria incolumità.

La tv è da sempre il mezzo principale di diffusione e di effusione dei mutamenti antropologici che colpiscono l’uomo, lo è fin dalla sua diffusione e lo è perché può scavare nella psiche degli spettatori mutando consapevolmente o meno il carattere degli stessi. Il marketing è una forma consentita di lavaggio del cervello, consentita perché normata da codici e compensata da lauti guadagni, che serve a trasformare lo spettatore in consumatore di merci, di idee, di tutto ciò che è vendibile a vantaggio dei talassocratici che finanziano la tv.

Dapprima sottilmente, poi con indole impetuosa negli ultimi anni le istanze di gruppi femministi, black power, lgbtetcetc hanno imposto una narrazione che la tv ha assecondato per destrutturare la società detta patriarcale, arretrata e bigotta presentandoci una nuova realtà progressiva, inclusiva e ugualitaria. Non è un caso se le maggiori piattafrome di streaming hanno goduto del sostegno di queste associazioni e una volta ottenuto il boom, e la conseguente monopolistica posizione di mercato, siano stati i maggiori vettori di tali idee costringendo le proprie produzioni a tramutare tali istanze in prodotto da commercializzare.Questo ha portato il dibattito a polarizzarsi tra chi ritiene legittimo questo cambiamento inclusivo che metta al centro delle serie tv questioni di genere e di politica e chi invece ritiene tutto questo insostenibile e vorrebbe si tornasse a premiare la qualità di uno sceneggiato e la bravura degli attori, indipendentemente da scelte ideologiche o rappresentanze etniche del caso. Una guerra senza quartire che diciamo pure non impedisce a Netflix e compagnia di fatturare miliardi, indice che tale sistema ormai si è sedimentato e la maggior parte degli spettatori se n’è fatta una ragione, tanto che nonostante le proteste quegli abbonamenti proprio non li vogliono disattivare. Si, ci vorrebbero proprio i pirati.


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